1. Per iniziare… raccontaci qualcosa di te, qualcosa che vorresti che i nostri lettori sapessero prima di entrare in contatto con il libro che hai scritto.
Credo sia importante che chi si accinge a leggere questo libro, o anche qualunque altro volume precedente, debba sapere che io, sì, sono laureato in filosofia, e non ho mai smesso di studiare (come vuole Socrate: “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”), ma mi sono sempre proposto di fare solo il divulgatore, e nient’altro che questo. Perché? Perché innanzitutto la filosofia deve tornare da dov’era partita: la filosofia non è nata nelle università, ma in piazza. Qui deve tornare: ad essere pratica comune fra la gente, tra di noi. La gente deve ricominciare a parlarsi, ad occuparsi di sé, questo Sé a cui non rivolgiamo mai la benché minima attenzione. Bisogna ricominciare a parlarsi e ritornare ad intrattenere rapporti autentici e di realtà, in cui noi ritorniamo al centro, ad essere fini, e non mezzi, non funzioni, non prestazioni, non competenze, ma uomini. Guardare fuori e guardarsi dentro. Il tasso di depressione in crescita sta lì a dirci che la gente non sta bene, e deve ritrovarsi, pur dopo essersi perduta, anzi proprio a dispetto di questo.
Ciò che mi propongo di fare con la mia scrittura è solo “fare qualcosa per qualcuno”. Se una pagina, una frase, un capitolo apre una breccia, innesca un meccanismo, mette in moto un ingranaggio, insinua un dubbio, evoca domande assopite dal nostro stesso esistere risolto in funzione e trascurando se stessi, che “cose” non siamo, io ho già raggiunto lo scopo. Ho messo in moto qualcosa. Ho messo un mattone da qualche parte. Importante è fare questi passi.
D’altra parte chi scrive, chi dipinge, chi compone musica, chi danza non fa la stessa cosa? Non si agisce per agire, ma per creare. In un mio libro ho usato questa epigrafe di Cioran: “Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo”. Lo credo fermamente. Non cerco affatto dei successi editoriali. Kafka vendette in tutta la sua vita, 500 copie, e non penso sia casuale. Tra il grande successo di massa (che crea e propaga ebetudine) e produrre un libro intelligente, ho scelto quest’ultima possibilità. Scrivere libri intelligenti non ha mai pagato. Però può innescare effetti: propongo al lettore questo esperimento, alzando la testa dal libro dopo e ogni 2/3 pagine, dovrebbe vedere il mondo in modo del tutto inconsueto. Dovrebbe aver indebolito una qualche fede sicura che, indiscussa, lo ha accompagnato per molto tempo. Fede scientifica, fede religiosa, fede politica: non importa. Questo libro è una demolizione.
Dovendo riassumere in poche righe il senso del libro “Dia-Ferenze” cosa diresti?
Direi: Attenzione al linguaggio. È il linguaggio che, nominando le cose, crea le differenze. Questo non è un difetto, anzi senza le differenze il mondo ci apparirebbe un mostruoso caos impedendoci di vivere. Tuttavia teniamo conto che le differenze sono il prodotto del linguaggio e che il linguaggio è il prodotto della ragione. Ma la ragione è tutto, ed è sempre esistita, o è solo un nostro prodotto che ha fatto la sua comparsa nel tempo? Se la domanda è sensata, cosa c’è prima della ragione? Possiamo davvero eludere questa domanda (magari per l’imbarazzante scomodità della presentita risposta)? Ratio significa criterio (di valutazione, ovviamente). La ragione espelle la soggettività. La ratio diventa criterio dello scambio dove il valore non è il soggetto, ma l’oggetto scambiato. E noi che fine facciamo?
Nel tuo libro si parla di dualismo tra Bene e Male, ma anche di essere e non essere, così come di altre classiche contrapposizioni. Ci spieghi il motivo per cui secondo te la divisione sta alla base dell’identità?
Direi che l’identità sta alla base delle divisioni. Prima viene l’intero, poi le parti, diversificate dal nostro linguaggio che ha il compito di discriminare. Deputata a questa operazione di discrimine è la ragione, che è nata dopo della follia, come suo strumento di contenimento. Noi abbiamo due fonti della coscienza, la mente ancestrale (rimasta inalterata per milioni di anni) e tutto il resto che è la mente evoluta (questa ha appena 200.000 anni). Ognuno di noi è la ricapitolazione dell’intera umanità.
Se potessimo fare un paragone la follia potrebbe essere estesa come un campo di calcio, la ragione una capocchia di spillo. Non sarà il caso di dare un’occhiata in questa area così vasta prima di cedere alla seduzione della ragione, sì piccola, ma potente al punto di occultare tutto il resto? Non potremmo guardare le cose dal punto di vista dell’intero, così da tenere sott’occhio ambedue le sponde del fiume navigandolo dal centro e non solo costeggiandolo da una sola delle due sponde e da qui giudicare ciò che crediamo intero solo perché una parte è nascosta allo sguardo? Questo è il senso della proposta: diffidare delle differenze, perché sono ingannevoli.
D’altra parte l’inganno è preferito per gli immensi vantaggi che reca. È la ragione, il grande inganno e la grande seduzione cartesiana, che vuole le differenze, molte delle quali non esistono. È terribile che il valore più alto in cui gli uomini vogliono credere, Dio, sia il primo a dire di sé che Egli è la fonte del bene e del male (Isaia 45, 7), e quindi a smentire ciò che gli uomini credono di lui. Dio è stato elaborato tramite le categorie della ragione (le teologie), e la ragione è deputata alle differenze. Ma Dio non conosce le differenze, come mostra la sua storia da Adamo all’Apocalisse, e come ho mostrato nel libro nel dettaglio.
4. Cosa vorresti che il lettore riuscisse a comprendere leggendo il libro? Quale significato non del tutto esplicito vorresti potesse cogliere?
Domanda semplicissima e risposta difficilissima. Come quando si guarda un quadro astratto: ognuno dà l’interpretazione che vuole, a meno che non conosca bene l’autore. Ciò che c’è da capire: la realtà è infinitamente più complessa di come ci appare, ed anche la semplificazione è una strategia di sopravvivenza. La filosofia è deputata a curare le idee, perché ci sono molte idee malate, cioè sbagliate, che circolano. Le idee non si fermano ad essere idee, ma producono effetti di realtà; si concretano in comportamenti. Qui la filosofia fa ancor di più di quanto possono fare le psicologie, che non curano idee ma emozioni. Bisogna curare le idee, per quanto siano antiche e venerande. Non dobbiamo temere ciò che possiamo scoprire: quando arriva una lettera dal mittente sconosciuto possiamo essere colti da curiosità o da paura (per il contenuto non molto lusinghiero che potremmo scoprire). Dobbiamo aprire quella lettera. Il mio libro è uno squadernamento di lettere, le ho aperte tutte, o comunque molte. Il risultato è complesso, lo ammetto. Ma forse la realtà invece è chiara?
5. Un altro argomento trattato nel libro è il vuoto lasciato dalla religione nell’animo umano e di conseguenza nella vita di ogni individuo. Come credi si possa sanare questa mancanza?
Innanzitutto bisogna chiedersi come mai le religioni hanno perduto il ruolo che avevano nella vita dell’uomo. Un mio vecchio insegnante di università, Galimberti, diceva che “gli dèi sono proiezioni degli uomini, e la loro mostruosità è dentro di noi”. Finché il nostro male interiore era catalizzato e rappresentato dagli dèi la comunità era salvaguardata. Ora, fuggiti tutti gli dèi (e “non ancora giunti i venienti”, aggiunge Heidegger) la comunità umana sta vagando in un non senso.
L’uomo percepisce con disgusto, perfettamente comprensibile, il suo stato mortale, perché è la distruzione di ogni senso, di cui l’uomo non può fare a meno. Dunque questa mancanza si può sanare ritrovando il senso del nostro esistere, che attualmente è afinalizzato. Purtroppo, o per fortuna, la filosofia non è deputata a dare risposte o a consolare, come comunemente si crede, ma il suo compito è fare domande. Ma una risposta io la debbo, limitata e provvisoria: il senso siamo noi. Fintanto che non ci ritroveremo, fintanto cioè che non saremo stati in grado di rimetterci al centro della nostra attenzione, continueremo a vagare nella terra di nessuno che abitiamo. Nietzsche diceva “Facciamo diventare la nostra vita un’opera d’arte”. È su noi stessi che dobbiamo “lavorare”.
6. In un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, in cui l’individuo, come tu stesso dici nel libro, si percepisce come un essere solo, in che direzione pensi ci debba condurre una guida?
L’unica direzione che vedo è: fare qualcosa per qualcuno. Non si fraintenda: non sto dicendo “ama il prossimo tuo come te stesso”, ma al contrario “ama te stesso se vuoi amare il prossimo tuo”, che poi non è che il significato autentico della prima affermazione. Non si può amare nessuno se innanzitutto non vogliamo bene a noi stessi. È come voler fare l’elemosina senza avere un quattrino in tasca.
7. Qual è il romanzo che ha “rivoluzionato” la tua vita conducendoti alla scrittura?
È “L’idiota” di F. Dostoevskij. Ma poi anche Omero e Platone.
8. Quale libro non consiglieresti mai a nessuno?
Non amo parlare male di altri scrittori. Però posso suggerire di non leggere libri che vengono dimenticati dopo qualche settimana dalla loro uscita. Io ho scritto una epigrafe sul mio sito internet che dice: “Leggere non è un trastullo, ma un compito, il cui oggetto siamo noi”. Se essa viene compresa, un lettore smette di “svagarsi” con la lettura, e comincia a “impegnarsi” con la lettura. Non è la stessa cosa. Ogni libro è un mattone che costruisce quella grande impalcatura che siamo noi. Come non mangeremmo cibi a caso, per nutrire il corpo, cerchiamo di non leggere libri a caso, che vanno a nutrire l’anima. Il dramma è che l’anima non può “vomitare”. Questo è il grande pericolo delle letture “qualsiasi”.
9. Adesso è arrivato il momento per porti da solo una domanda che nessuno ti ha mai fatto sul tuo libro, ma a cui avresti sempre voluto rispondere…
Sì. Mi sarebbe sempre piaciuto che qualcuno mi avesse chiesto: “Ma questo libro che cosa ha a che fare con me?”. Credo sia la domanda più importante che un lettore (io compreso, ovviamente) si possa porre. Innanzitutto: leggo per diversivo (ancora un “vertere ad aliud”, divertirsi, rivolgersi ad altro, come non fossimo già abbastanza assorbiti dall’ “altro da noi”), oppure leggo per costruirmi? Perché è questo che fa, può fare e deve fare la lettura: costruire! Costruire persone, non consenso. Anche l’opposizione, argomentata e motivata, ad un libro è un costruire. Cultura viene dal latino “colere”, coltivare. E non si tratta di coltivare i campi (che è pur necessario) ma di prendersi cura di noi stessi, noi siamo il risultato del nostro pensare e del nostro agire. Noi siamo i responsabili di tutti i mattoni che abbiamo messo (od omesso) uno sull’altro della costruzione che noi siamo. Noi dobbiamo scegliere i mattoni con la massima oculatezza, perché sono i nostri compagni di viaggio. I libri non devono abbandonarci mai. La parola dell’altro è sempre preziosa.