Di cosa parla Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese
Di solito degli autori si imparano pedissequamente le biografie, dove nascono, dove muoiono.
La biografia di Cesare Pavese è ribaltata; è fondamentale conoscere le langhe in cui nasce, che racconta con le sue parole morbide, ma è ancor più importante sapere dove muore, o meglio, come e in che modo sceglie di morire, di guardare negli occhi il baratro che per trent’anni l’aveva fissato, con la mania del suicidio, intatta e immobile, sempre pronta a morderlo.
E nel 1950 non si limita a morderlo, lo divora.
Questo misero excursus sulla vita – e sul buio – che Pavese si è trascinato dietro, è indispensabile per capire (se non è dissacrante parlare di comprensione di una poesia, e non di umile interpretazione) quelle che sono le sue ultime liriche, contenute nel volume di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Negli ultimi anni della sua vita Cesare Pavese conosce una donna, che tutti giudicano troppo bella per lui, e troppo diversa, irraggiungibile, anche se lui la tocca, ci dorme insieme, scrive per lei lettere, sceneggiature da farle recitare.
Constance Dowling era, infatti, un’attrice americana desiderosa di trovare fortuna dorata a Roma, dove per caso incontra Pavese, e lo incatena a un amore troppo grande per lui, forse flebile per lei. Tant’è vero che va via e, oltreoceano, Pavese indirizza il suo amore e il suo dolore.
Tutto quello che Pavese vive durante questo periodo, lo trasforma e vomita in letteratura. Sotto forma di disperazione sorda nelle lettere dell’epistolario, di amarezza ch’era incapace di ingoiare nelle pagine di diario che poi verranno organizzate – da lui stesso, prima di uccidersi – sotto il titolo de Il mestiere di vivere. E ancora, in queste poesie, dove c’è il dolore che gli urlava contro, l’assenza che si è fatta presto buco nero, silenzio assordante, la ragione di chi cercava di scostarlo da quell’amore infame.
E non manca, in quelle righe, l’amore stesso, che gli offre carezze di morte, e gli sussurra “È finita” mentre lui sceglie che veramente sia finito tutto, con dei barbiturici giù per la trachea.
Pavese non ci fa capire se le poesie tappano il dolore o se la morte poteva farlo. Quello che però le poesie comunicano è il grido di un animo completamente messo a nudo, che non ha vergogna a rivelare la propria debolezza, anche se può far inorridire o far male – in primis a se stesso.
La prima sfilza di poesie viene scritta dall’autore tre anni prima del completamento della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, che sarà per lui l’ultima e forse la più enfatica, dove il Pavese neorealista che tutti si aspettano e di cui si illudono di prevedere le mosse, non scompare del tutto, ma lascia spazio a un poeta che non vuole etichette e desidera solo parlare del suo amore, del dolore che gli ha fatto scoprire, ma che in lui c’era sempre stato. Silenzioso, dormiva.
Si sente che quello che Pavese dice è vero. Dalla prima all’ultima parola del libro Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; egli sembra disegnare e non descrivere lo sguardo della morte che era Constance, ma erano anche le delusioni precedenti, e i fallimenti, e la volontà di stare solo, e l’incapacità a rimanerci.
Recensione scritta da Viviana Veneruso