La redazione del sito RecensioneLibro.it intervista lo scrittore Francesco Testi autore del libro “Memorie d’inverno”
Dovendo riassumere in poche righe il senso del tuo libro “Memorie d’inverno”, cosa diresti?
Che è un dramma dolorosamente attuale, una tragedia dei giorni nostri capace di illuminarli con lucidità e visionaria commozione.
Da dove nasce l’ispirazione che ti ha portato a scrivere questo romanzo introspettivo ma allo stesso tempo rivolto all’esterno?
L’ispirazione viene dalla pandemia, ovviamente. Un periodo, durato complessivamente due anni, di terrore e restrizioni, in cui ci siamo chiesti per la prima volta nella storia dell’umanità, se c’era vita prima della morte (!)… Detto questo, è fin troppo facile fare dei correlativi. Insomma, a me piace un sacco provocare, questo è certo. Ma in fondo, in ogni romanzo c’è scritto che ogni riferimento a cose o persone reali è puramente casuale, soltanto per non far capire agli imbecilli che nessun personaggio è mai totalmente inventato… Per quel che riguarda il lato introspettivo del libro invece,beh, è evidente che quando diciamo introspettivo o viscerale, non dobbiamo intendere solo un punto di scambio dell’interiorità tra autore e lettore, ma anche una qualche specifica funzione legata all’anno: c’è erotismo anale, infatti, in tutto ciò che riguarda l’inconscio… E così tutto torna.
Cosa vorresti che i lettori riuscissero a comprendere leggendo le tue parole? Quale segno vorresti lasciare in loro?
Prima di tutto vorrei emozionarli; farli commuovere per tutto quello che George Carpenter, il protagonista di “Memorie d’inverno”, ha vissuto sulla sua pelle durante quelle vicende drammatiche, quel colpo di stato globale in cui ci siamo trovati a vivere tutti quanti, senza neanche rendercene conto. Ma la mia ambizione più grande forse è quella di far comprendere al lettore che la terza (e ultima) guerra mondiale è iniziata proprio lì: silenziosamente e tranquillamente, mentre passavamo le giornate davanti al “cretinatore” (la tv)… Oggi ne vediamo i risultati: il caos regna su tutta la Terra. Da questo punto di vista, la pandemia è stato un vero e proprio catalizzatore per il cambiamento: dalle tastiere ai missili.
C’è qualcosa che avresti voluto aggiungere al libro, quando lo hai letto dopo la pubblicazione?
Il sogno dei surgelati. Durante uno dei lockdown più pesanti, sognai mia madre che mi trovava a fare la spesa al banco dei surgelati. Ma non come consumatore, come prodotto! A quel punto, lei cercava di tirarmi fuori dal banco frigo, ma prima mi staccava una mano, poi l’intero arto… Non so dirti perché non l’ho messo nel libro… Ad ogni modo, si vende bene anche così!
Se dovessi utilizzare tre aggettivi per definire “Memorie d’inverno”, quali useresti?
Ribelle, essenziale, postumo.
Ci puoi spiegare da dove viene il titolo del tuo libro?
Potrei dirti che viene dal mio amore per l’inverno e per l’atto di ricordare, qualcosa che è intrinseco alla scrittura (in fondo, uno scrittore vive solo in differita), ma non è così. E’ curioso, ma viene da un film di Woody Allen! Si tratta di “Un giorno di pioggia a New York”, dove si parla spesso di un testo o di una pellicola, non ricordo bene, dal titolo “Memorie d’inverno”, qualcosa di molto vicino all’immaginario di Bergman, autore molto caro a Woody… Al solo sentire quel titolo, al cinema, non ho avuto dubbi: sarebbe stato quello il nome del mio prossimo bambino!
Perché credi si debba leggere il tuo libro?
Perché sono un poeta, e ciò mi rende degno d’interesse. Vedi cara, devi sapere che nella mia vita d’artista ho attraversato vari periodi. C’è stato un momento in cui ero un esaltato, pensavo di essere onnipotente e invincibile, l’Eletto, solo perché facevo l’attore. Ho rifiutato progetti per paura d’esser denunciato per circonvenzione d’incapaci, e ne ho accettato altri solo perché mi pagavano bene, senza però metterci il minimo impegno (oggi so che sbagliavo in entrambi i casi: la mediocrità va sempre soccorsa)…
Poi è arrivata la maturità, c’è stato il periodo del Teatro Da Camera, una specie di atelier volante alla Alberto Giacometti, dove mi sono fermato per oltre 10 anni, convinto che la mia presunta immobilità fosse eternità che trascorreva: una nuova geografia dell’anima in salsa espressionista. E’ lì che sono nato, forse. E’ lì che ho fatto fiorire l’Essere, colui che smerda tutto ciò che si muove, come dice Botho Strauss. Questa nuova posizione da eterno outsider però, se da un lato era piena di privilegi per una vita creativa (per avere una visione del mondo), dall’altro era molto dolorosa per la mia persona (grande senso di solitudine e alienazione dal mondo)… Troppa luce, come disse Goethe in punto di morte.Tutto questo per dire che in un bunker, forse, c’ero già finito ancora prima di essere in lockdown… Ciò mi autorizza a collocare la mia penna tra quelle dei profeti o perlomeno dei precursori.
Quali sono i tuoi prossimi progetti in fatto di scrittura?
Ho appena finito di scrivere un altro libro, ma non so se riuscirò a darlo alle stampe… Il tempo del mondo sta finendo; per i calcoli quantistici manca davvero poco al prossimo Big Bang… Come dice Krasznahorkai, la speranza è un errore (nel senso che possiamo solo sperare che si sbaglino).
Qual è il romanzo che hai letto quest’anno che ti ha più colpito e consiglieresti?
“Annientare” di Michel Houellebecq, un capolavoro. Sublime seppur inquietante, osceno seppur commovente… Per me Houellebecq è il più grande scrittore vivente.
Adesso è il momento di porti una domanda che nessuno ti ha fatto ma a cui avresti sempre voluto rispondere.
Vorrei che qualcuno mi chiedesse quanto ho sofferto per tutto quello che ho passato durante la pandemia. La risposta però sarebbe il mio romanzo.