Era dunque capitato che il figlio, nonostante avesse presentato un curriculum di tutto rispetto, fosse risultato ultimo nella graduatoria dei titoli. In paese si mormorava da tempo che il posto fosse già assegnato, al figlio dell’amico degli amici, con il quale il Sindaco si accompagnava spesso a braccetto; ma chi vuol credere ancora a queste storie da prima Repubblica?
L’esame orale, poi, si era rivelato una sorta di quiz, stile televisivo; solo che stavolta in gioco non c’erano bei soldini, ma la dignità personale. Un pacco, insomma.
Raffaele, cresciuto alla scuola di suo padre, si era alzato ed era andato via, in silenzio.
A casa, raccontava l’anziano padre, gli aveva fatto ascoltare una canzone che parlava di un ragazzo che si chiamava come lui, che non aveva fatto il soldato ma era contento lo stesso. Conosceva la gente. Lui lo aveva guardato e nella confusione, nel dolore e nell’orgoglio capiva solo che, se possibile, aveva tirato su un figlio ancora più idealista di lui. Nell’incoscienza dei suoi neanche trent’anni, quel ragazzo pensava di aver dato prova di dignità, di rispetto dei suoi principi.
Il treno ha rallentato, per fermarsi a un’altra stazione. L’affrettarsi dei passeggeri mi ha distratto. Ho fatto posto, ho aiutato una signora a sistemare la valigia.
All’improvviso l’ho visto lì, l’anziano signore e la sua pena, sulla banchina della stazione. Non faceva per niente freddo, ma lui lo stesso si è stretto nel cappotto, alzando il bavero, col cappello calato. Ma l’andatura sicura, di chi non ha nulla da nascondere.
Ho cercato di immaginare il suo rientro a casa. Avrà una moglie, che lo accoglierà con un sorriso spento, e siederanno insieme a cena, guardandosi negli occhi per non perdersi.
Forse a cena siederà anche il figlio, che con il suo stanco sorriso gli parlerà di libri e canzoni. Contento di essere se stesso.
Ho ancora il libro tra le mani, ma non riesco a risolvermi a cominciare la lettura. Sto riflettendo su quanto sono stata fortunata.
Il mio paese è differente.