Di cosa parla “De vita beata” di Seneca
“De vita beata” di Seneca è un dialogo scritto in onore del fratello Anneo Novato, nel testo citato come Gallione, per ricordare Gunio Gallione, retore che lo aveva adottato.
Il tema centrale è la felicità che, secondo Seneca, ha ragione di esistere solo nella virtù, sublime, avvolgente e duratura.
Il volgo si lascia sopraffare e trasportare dai piaceri deboli e caduchi. Tra l’altro il popolo ha mal interpretato la forma di piacere descritta da Epicuro. Il filosofo greco presagiva un tipo di piacere “sobrio e secco”.
L’uomo che abbraccia la virtù custodisce in sé il vero “senso della felicità” che è ignoto ai fanciulli e agli stolti.
Il saggio, grazie al suo raziocinio, acquisisce la consapevolezza, la padronanza del proprio “status”.
La sua condizione si identifica col “summum bonum”.
Il summum bonum è uno stato dell’animo in cui si raggiunge il grado più alto della “profondità” e della “grazia”.
Si può soltanto viverlo, è indescrivibile a parole.
È una forma di contemplazione esistenziale, è quando si prende consapevolezza di essere parte integrante di un tutto (del mondo che ci circonda). È un millesimo di secondo che racchiude in sé l’eternità.
La parte più bella dell’opera “De vita beata” è riportata nel quindicesimo capitolo. L’uomo non obbedisce passivamente all’Essere supremo, ma compie sempre la sua volontà. Egli si identifica e al contempo si annulla in Dio.
Il modo in cui viviamo ci rende schiavi, non del piacere o delle passioni che sono una scelta individuale. Siamo schiavi perché privati del dono più grande che possa avere un uomo: la propria libertà.
Il più delle volte giustifichiamo le nostre azioni dicendo che “siamo vittime della circostanza”. In vero, il saggio è “imperturbabile”. Ogni azione dell’uomo, buono o cattivo, non lo scalfisce minimamente.
Egli vive in armonia col mondo, non nega mai la realtà che lo circonda, ma vive fondendosi e confondendosi con essa.
Non si barcamena nelle angustie che lo colpiscono, ma non è neppure imprigionato nel tempo.
I critici non sono stati magnanimi con Seneca, perché hanno sottolineato ripetutamente la grande nota d’incoerenza che esiste tra i suoi insegnamenti e il suo tenore di vita.
L’autore si giustifica dicendo. “Io le ricchezze le possiedo, ma non ne sono posseduto”.
È un bel dire, però egli non ha mai fatto nulla per privarsene.
(Questa affermazione ci lascia un po’ d’amaro in bocca, ma è solo una viva testimonianza del grande acredine in cui si è trovato a vivere Seneca!).
Recensione scritta da Concetta Padula