Racconto inedito Il colloquio di lavoro di Edoardo Stivensoni
Per capire che fosse una giornata di merda, i presupposti c’erano già tutti dal mattino.
Precisamente dalle otto e trentasei, quando dalla rete telematica che permette a uno che sta in America di sapere cosa cavolo mi sono messo stamattina nel caffellatte a casa mia, qui, dall’altra parte del mondo, ho appreso la triste notizia di non aver superato l’odiato esame di Spagnolo. L’ultimo esame della mia carriera prima della laurea che, alla luce di quella simpatica notizia, diventava un miraggio assimilabile a me che vinco il Pallone d’oro con addosso la maglia dei Ringo Boy’s.
Ma nonostante il chiaro segnale di quella mattina, decisi comunque di scendere e non prendere neanche in considerazione l’ipotesi balenatami qualche minuto prima tra il calore delle lenzuola: telefonare e disdire. Adoro telefonare e disdire. Inventarmi le peggio palle, dall’invasione di cavallette alla Blues Brothers, alla caduta drammatica per le scale, ad una guerra lampo dei separatisti del mio rione.
Invece quella mattina, incazzato con il mondo, decisi di uscire di casa per presentarmi al colloquio fissato qualche giorno prima. M’ero tolto gli orecchini e fatto la barba per avere un aspetto quanto meno presentabile. Diciamo che volevo evitare mi scambiassero per il barbone che cerca l’elemosina sotto l’ufficio.
L’effetto ottenuto era terribile. Nel farmi la barba, avevo sferrato un colpo mancino al pizzetto, che adesso aveva una forma che, volendo essere poco polemici, ricordava un po’ il tardo cubismo europeo. L’unica giacca che avevo risaliva ai tempi del mio tentativo di assomigliare all’omino Michelin. Al tempo del colloquio il mio metabolismo rispondeva ancora, e quindi il mio girovita misurava una lunghezza più che umana. Il problema è che la giacca sembrava un telone da circo della simpatica signora Moira. Ma quella mattina non avevo molta voglia di ragionare. Così me la misi addosso avvolgendomela più e più volte. Sembrava un chimono. Ero la mia geisha preferita!L’aria era fresca e prometteva pioggia, quindi sulla giacca-chimono ci calai un giaccone di quelli impermeabili. In queste condizioni pietose, mi avvia al treno per giungere al mio primo colloquio di lavoro.
Arrivo all’appuntamento con leggero anticipo: 48 minuti e 34 secondi. Sudato da far schifo. Cerco il numero civico e resto favorevolmente colpito dal fatto che nello stesso palazzo dell’ufficio c’è un bar. Prendo un caffè e attendo. Vado avanti e indietro a guardare le vetrine che non hanno niente di interessante. Sarei anche tentato di chiedere a tutti i negozi se cercano un commesso. Desisto, pensando che sono lì per un colloquio.
All’ora X entro. La porta dell’ufficio è aperta. Mi accoglie una signora bionda tutta affaccendata, credo sia la signora delle pulizie. Ha la faccia congestionata e un raffreddore da paura. Chiedo della tizia con la quale ho fissato il colloquio: “Ehhhhhhh….viene a ora di cavaliere” mi risponde la signora delle pulizie un po’ stizzita. Poi mi sorride e mi dice di accomodarmi.
Mi siedo in corridoio, modello ospedale la notte di S.Silvestro. Un via vai che neanche a Via Montenapoleone. Una ragazza poco più grande di me, una montagna di capelli e una gonna zigana, cammina veloce per tutto l’ufficio. Entra ed esce da mille porte. Temo che tra un po’ riesca anche ad uscire da una misteriosa botola nascosta sotto la mia sedia. Nel suo continuo andare e venire, la gonna zigana s’abbassa un po’, e la signorina continua a fare le faccende con tre quarti di perizoma in bella mostra.
“Sarà una regola aziendale” mi dico speranzoso.
Resto ad aspettare…guardo gli avvisi in bacheca. Agli occhi di un estraneo potrei sembrare interessato, invece sto semplicemente usando questo tempo per constatare come le mie diottrie svaniscano rapidamente. Unisco l’utile al dilettevole: colloquio e visita oculistica.
Dopo minuti interminabili, la signorina in perizoma viene a darmi la mano. Mi dice che devo fare il colloquio con lei. Cerco di ricordare come ho trovato questo contatto: non sono quelli del casting per i provini porno vero?
Una volta nell’ufficio ricordo che avevo scritto a questa aziende per far valere il mio mezzo patentino da pubblicista, visto che qui fanno pubblicazioni e hanno una redazione.
“Lei ha chiamato per il call-center o per la Banca dati?” resto spiazzato.
“Veramente, volevo lavorare in redazione.”
“Ah…ma dove l’ha trovato l’annuncio.”
“Nessun annuncio, ho trovato il vostro numero sul sito. Ho digitato su Google la categoria di appartenenza e siete usciti voi.”
“Veramente?” è esultante “Su Google ci siamo pure noi? Che bello!”
Resto basito ma non dico niente. E’ felice come se fosse avesse scoperto all’improvviso di lavorare per una grande azienda. Torna subito professionale, dopo una scrollata di capelli.
“Qui c’è solo un lavoro da inseritore dati. Lei si sta per laureare…vuole fare altro…” lo dice quasi dispiaciuta, come se volesse incoraggiarmi a cercare di meglio. Solo oggi capisco che mi stava mettendo in guardia.
“Per me va bene” pensando che sto senza una lira e che per sei mesi non potrò dare esami. Lei fa un attimo la faccia del diavolo pentito dopo aver rubato l’anima ad un bambino malato.
“Allora venga…la faccio parlare con quello che sarà il suo capo ufficio”.
Ci spostiamo in un’altra stanza. Dietro la scrivania c’è il mio nuovo capo. Sono curioso di sapere che faccia ha, ma la ragazza in perizoma mi occlude la visuale. Mi introduce e si sposta su un lato. Sfodero il mio miglior sorriso e vado incontro al capo che ancora non vedo. Ho la mano a mezz’aria per stringergliela e un sorriso ebete sul viso.
Resto di stucco quando guardo bene il mio nuovo capo: è la signora delle pulizie!
Tento, con mal celato imbarazzo, di sistemarmi sulla sedia posta di fianco alla scrivania del capo, in uno spazio grande più o meno quanto un gabbia da trasporto di un coniglio nano. La donna delle pulizie divenuta capo reparto mi guarda sorridendo e parla con un accento che catalogo tra il bolognese, il catalano e il marziano. L’ufficio è composto da sole donne: sedici paia d’occhi femminili che scrutano l’esemplare maschile entrato in questa stanza con fare disinteressato.
Fisso gli occhi sui raccoglitori che fanno il giro della stanza, quasi li trovo belli. Rifletto solo dopo che nel caso di un leggerissimo movimento della terra, il 70% degli occupanti di questo ufficio verrebbero sepolti sotto i chili di carta stipati nei raccoglitori. Resto piacevolmente sorpreso dal fatto che anche il capo lavora sotto la minaccia delle mensole traboccanti. Penso che questa è un’azienda con organigramma orizzontale: “Siamo tutti nella stessa barca. Non importa che tu sia il capo o l’ultima ruota del carro. Se viene un terremoto, crepiamo tutti assieme.” Che stupenda filosofia aziendale!
Il capo dice di chiamarsi in un modo improbabile, a metà tra il nome di una caramella e un brand di marca da scarpe. Fingo di aver compreso benissimo e sorrido.
“Qui dentro ci vogliamo tutti bene” dice con le “e” stra-aperte “siamo un gruppo di amiche”. Sento qualche colpo di tosse dissimulato e mi pare di distinguere tra rigurgiti e raucedini finte, i più svariati insulti.
Mi concentro per capire cosa dice il capo:“L’orario è dalle 9 alle 17. Lo stipendio già lo conosci. Per me è una follia!”… se lo dici tu!
“Tu fumi?”
“No” dico io, nascondendo il vizio, come mi hanno insegnato i manuali per il primo colloquio.
“Bene. Lì c’è il bagno se vuoi fumare dopo il caffè.”
“Ah bene… ma non fumo.”
“Oppure, se vuoi, dopo il caffè puoi andare a fumare giù per prendere un po’ d’aria”.
Mi sforzo e sorrido.
La donna delle pulizie, che tale non è, mi racconta di quali sono gli orari del caffè, del bagno, delle sigarette e della pausa pranzo. Non parla d’altro per dieci minuti. Io annuisco e sorrido.
Alla fine mi guarda e dice: “Cosa te ne pare?”
“Perfetto” dico io.
Mi manda dalla signorina in tanga per prendere gli accordi per il mio inizio. Mi hanno preso. Inizierò di lunedì. Esco dall’ufficio con una domanda in testa: “ma che cazzo di lavoro si fa qui dentro”
Oggi, dopo otto mesi di lavoro… non ho ancora una risposta.