Intervista a Francesco Ventriglia
1. Dovendo riassumere in poche righe il senso del tuo libro La sindrome di Via Piccolomini cosa diresti?
Partendo dal disagio esistenziale del protagonista, senza scadere in sdolcinati e melensi ambienti letterari, ho inteso parlare d’amore come arma di difesa contro le meschinità e le mediocrità della vita e come mezzo per raggiungere il riscatto sociale. L’amore tout court a trecentosessanta gradi: come quello che unisce due sorelle gemelle, oppure quello che spinge un uomo ed una donna a concepire in nome di questo sentimento, situazioni assurde che vanno ben aldilà della logica comprensione. Oppure, ancora come compensazione all’amore negato, per il protagonista, a causa di un padre fuggito dai propri doveri e per le sorelle, rese orfane dalla nascita da un destino crudele. L’amore incondizionato, quello della madre del protagonista per il proprio figlio. In questo contesto, Federico, praticherà ed insegnerà l’illusionismo e ricorrerà all’uso della menzogna, non più, per un mediocre svicolare dai guai, ma per amore.
2. Da dove nasce l’idea che ti ha portato a scrivere questo romanzo in cui la fragilità psicologica del protagonista crea una trama fuori da ogni controllo?
Pur mantenendo ben definite ed indipendenti tanto l’identità del protagonista quanto quella del sottoscritto, il romanzo gode dell’ispirazione autobiografica. Dopo aver sciupato mezzo secolo di vita, l’incontro con una donna, anch’essa fonte di ispirazione per quanto concerne la creazione di tutti i personaggi femminili positivi del romanzo, ha fatto scattare in me la molla dell’autostima e della fiducia in me stesso. Ed anch’io inizialmente, come il protagonista, ho creduto, sbagliando, di migliorare passando per l’ostentazione di una ricchezza materiale, futile ed apparente.
3. Da quali elementi sei partito per scrivere la storia?
Da tre fattori: a) la consapevolezza di aver iniziato un processo di cambiamento ma, come in via Piccolomini, in cui, più ti avvicini al cupolone e più questo pare che si allontani, anche per me, più miglioravo e più mi sembrava che la strada da percorrere aumentasse. b) La necessità di veder realizzato un mio progetto per sfatare la mia proverbiale incostanza, per cui, sin da quando ero bambino, mio padre mi chiamava il maestro delle opere incompiute. c) Il desiderio di rendere omaggio a Roma senza scivolare nella celebrazione. Ed ho realizzato quest’ultimo, ricorrendo all’espediente narrativo della descrizione dell’attività di guida atipica turistica della co-protagonista.
4. Cosa vorresti che il lettore riuscisse a comprendere leggendo il tuo libro?
Nelle ultime quattro righe il romanzo offre al lettore un’inaspettata chiave di lettura che sposta tutti i punti di vista. E come in via Piccolomini o nella SR 218, strada in cui le palline sembra che rotolino in salita, niente è come appare, per quanto la realtà possa manifestarsi assurda e quanto invece, la finzione risulti credibile. Pirandello nei sei personaggi, ad uno di essi, il padre, faceva dire: “Oh signore, lei sa bene che la vita è piena dinfinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché son vere.”
5. Se Francesco Ventriglia dovesse utilizzare tre aggettivi per definire il suo romanzo, quali userebbe?
Personalmente mi piace definire La Sindrome di Via Piccolomini, un romanzo intrigante, diverso e mai scontato. Tuttavia, ho girato la domanda ai pochi lettori, parziali, che lo hanno avuto in anteprima e, dopo averlo letteralmente divorato, la risposta è stata univoca: scorrevole, divertente ed emozionante.
6. Perché credi che si debba leggere La sindrome di Via Piccolomini?
Io credo che ogni libro, quale esso sia, rechi in sé un qualcosa che determina nel lettore momenti di crescita, conoscenza e consapevolezza. Nello specifico, consiglio di leggere La Sindrome di Via Piccolomini perché, a breve (relativamente), uscirà il mio secondo romanzo e, per quel giorno, potrei già essere diventato famoso, quindi, diverrebbe fondamentale aver letto l’opera prima. Scherzi a parte, il libro che verrà, reitererà alcune peculiarità del primo che determineranno il fattore identificativo, una sorta di patrimonio genetico delle mie opere.
7. Da dove nasce la passione per la scrittura?
Da adolescente, in ambito scout componevo i testi delle scenette, delle recite e delle rappresentazioni che interpretavo. L’apprezzamento del pubblico mi gratificava ed il plauso mi nutriva. Tuttavia il tutto si riduceva a poco più di un gioco. Successivamente, la scrittura creativa fu monopolizzata dalla composizione di lettere e poesie d’amore mai inviate. Fu in questa fase che scoprii il potere benefico, antidepressivo e rilassante della scrittura. La scrittura fine a se stessa per se stessi. Con l’avvento della tecnologia digitale ed i vari social network, divenni un assiduo utente, senza peraltro farmi corrompere da quelle aberranti abbreviazioni e dalla latitanza degli accenti e delle acca, propri di questo tipo di comunicazione. Tra i miei corrispondenti virtuali, divenne opinione universalmente condivisa che, con le parole ci sapessi fare, tuttavia, la mia insicurezza unita alla mia incostanza mi impedivano di fare il salto di qualità, che avvenne soltanto quando la mia donna cominciò a credere in me, ancor prima di crederci io stesso.
8. Hai nuovi progetti in vista? Stai scrivendo un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
Non appena mi impegnai, verbalmente, con la mia casa editrice, cominciai a ricevere all’indirizzo della mia posta elettronica, giudizi lusinghieri e proposte allettanti, forse anche più appetibili. Pur rispettando gli impegni, attribuendo valore alla parola data, promisi a coloro i quali si erano espressi favorevolmente nei confronti del mio romanzo, che per il successivo, già in cantiere, avrei dato loro la precedenza. In realtà iniziai la stesura del mio secondo libro solo successivamente ma fu grazie ai loro pareri favorevoli ed all’entusiasmo che mi trasmisero leggendoli che mi lanciai in una nuova avventura creativa. In questo nuovo lavoro intendo mantenere inalterato il percorso sperimentale, già intrapreso col primo libro, di liberare il romanzo dalla restrittiva logica dell’attribuzione di genere letterario. Con un qualcosa in più, quindi, alla narrativa contemporanea, surreale, romantica erotica ed artistico-storica, ho intenzione di abbinare un thriller dai risvolti fantapolitici. Mantenendo inalterato il desiderio di rendere omaggio alla mia città, proponendo, durante l’avvicendamento della storia, piacevoli camei su Roma.
9. Qual è il romanzo che ha rivoluzionato la tua vita conducendoti alla scrittura?
Il romanzo Terra! di Stefano Benni mi ha fatto provare il sentimento dell’invidia, in quanto avrei voluto scriverlo io. Invece l’autobiografia di Edward Bunker in cui descrive il suo percorso formativo, è stata molto stimolante in tal senso. Inoltre, ritengo di essergli grato per avermi presentato e fatto conoscere un inedito Jack London, ben diverso dallo pseudo autore di libri per ragazzi, proposto alle scuole dell’obbligo. Ancora ho la pelle d’oca, per aver letto un suo racconto intitolato Fare un fuoco. Non sarei tuttavia onesto se non citassi un’opera minore di Luis Sepulveda, Diario di un killer sentimentale. Di quest’ultimo romanzo, ho apprezzato la capacità di sintesi dell’autore, dote da me ambita e difficile da acquisire.
10. Quale libro non consiglieresti mai a nessuno?
Piuttosto che un libro, esiste un genere di libri che oltre a non consigliare, se diventassi un pretore, vieterei di chiamare tali. Si tratta di tutta quella pubblicistica che sfrutta la popolarità temporanea di taluni personaggi per piazzare sul mercato prodotti quali, inutili ricettari di cucina, pettegolezzi, assurdi manuali per stimolare la memoria, la personalità la sicurezza in se stessi, la diuresi, l’evacuazione, il calo di peso, la vincita al lotto, il successo con l’altro sesso e quant’altro.
11. Adesso è arrivato il momento per porti da solo una domanda che nessuno ti ha mai fatto, ma a cui avresti sempre voluto rispondere.
Se posso esagerare, avrei desiderato che mi fossero poste due domande:
a) Senza ipocrisie e con la massima sincerità, descrivi quali aspettative ti attendi. Non mi vergogno di ammettere di nutrire il desiderio di diventare ricco e famoso, pertanto, da La Sindrome di Via Piccolomini mi aspetto per lo meno di riuscire a salire un piccolo gradino, per acquisire la consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta. Tuttavia, desidero ottenere qualcosa di più importante: vorrei che gli echi della notizia dell’uscita del mio libro, arrivino fino sopra il terzo piano, affinché anche mio padre possa condividere con me questa soddisfazione e ciò che essa rappresenta, essendo passato nel mondo dei più prima del mio cambiamento.
b) Quale personaggio del tuo libro hai amato di più? Irene Paolucci, verso pagina 361, ma non dico altro.