Intervista alla scrittrice Gabriella Carbone
1. La prima cosa che colpisce di questo romanzo è il titolo da trattato scientifico. “Crioconservazione”. Cosa significa per te?
Nel 2006, quando fu fatto il referendum sulla fecondazione assistita, nel mio liceo si fece un gran parlare di bioetica, delle varie tecniche scientifiche, delle previsioni normative. Fu allora che sentii questo termine per la prima volta. Ciascuno studente, probabilmente, come me, si formò una propria personale idea sul tema e fece la sua piccola “campagna politica”. Io, però, avrei compiuto 18 anni quell’agosto e quindi non potevo votare. Così, mi rimase dentro solo una consapevolezza, più forte delle affermazioni di principio e della presunzione che spesso accompagna la giovane età. L’idea che la questione portasse con sé il dramma di una profonda sofferenza umana, il desiderio di essere genitori e l’impossibilità di procreare, a cui si cercava di porre rimedio con la scienza e con la tecnica. Nel corso della mia vita, poi, mi è parso che questo tema si ripetesse in modo universale in tutte le vicende umane, nella disperata ricerca di perfezione e del superamento dei limiti del tempo e delle possibilità. Per questo il mio romanzo, pur non avendo alcuna attinenza con il significato scientifico del termine, parla di crioconservazione.
2. Chi sono i protagonisti di Crioconservazione? Quali sono le caratteristiche di questi personaggi?
Claudia è una studentessa che si trova a frequentare l’università fuori sede e ha perso sua nonna, per questo le sembra di essersi fermata in un mondo che prosegue invece incessabilmente il suo corso. Marco è un ragazzo segnato dal senso di colpa per la morte di sua madre, che ha perso la vita proprio mettendolo al mondo. Entrambi vivono la giovinezza, ma da due diverse prospettive, nella difficoltà di entrare e trovare un proprio ruolo nel mondo degli adulti e in quella del rapporto con la propria famiglia d’origine. Mario, invece, è un reporter mancato, che ha smesso di rincorrere il suo sogno accontentandosi della quotidianità della sua famiglia e si trova a scontrarsi con la cosiddetta “crisi di mezza età”. Teresa, infine, è una professoressa di inglese in pensione, chiusa nella solitudine della propria vecchiaia. Ciascuno, in una diversa fase della vita, si trova ad affrontare il medesimo dramma, l’elaborazione di una perdita fisica o morale che coincide con il momento esatto in cui la vita definisce i limiti del possibile, del tempo e dello spazio.
3. E da dove nasce l’ispirazione per raccontare una storia fatta di dolore e necessità di superare i limiti imposti dalla vita?
Non saprei individuare uno momento, un fatto, un luogo o una persona che abbiano ispirato in maniera esclusiva il racconto di questa storia. La vita di ciascuno di noi ci costringe con il tempo ad affrontare dolori e difficoltà, a veder scontrare, con gli esiti più diversi, il nostro umano anelito alla perfezione con l’ineluttabilità della realtà. E questo è vero sia nella nostra esperienza personale, sia in quella delle persone al fianco delle quali ci troviamo a condividere per più o meno tempo la nostra esistenza, senza che questo caratterizzi le vicende di ciascuno come una storia esclusivamente di dolore. Perché è proprio in questo modo che la vita lascia spazio anche alla gioia e alla realizzazione. Per questo direi che anche il mio romanzo sia piuttosto un racconto sulla vita e che, come tale, tragga ispirazione dalla vita stessa in tutte le sue sfaccettature.
4. Cosa vorresti che i lettori riuscissero a comprendere leggendo il tuo libro? Quale segno vorresti lasciare in loro?
Non penso di aver scritto questo libro avendo davvero in mente l’idea di dover lasciare un messaggio in qualcuno, piuttosto per me, per prenderne consapevolezza io stessa. Non sono una di quelle persone che vincono sempre, anzi. Ricordo che prima dell’esame di maturità la nostra professoressa di Storia dell’Arte scrisse una poesia su ciascuno studente della classe e mi dipinse come un arciere, la cui precisione lo assiste di più della sua buona stella. E devo dire che ci aveva preso sul serio. Tuttavia, sulla base delle doti che ho, combatto sempre e comunque. Questo – ho capito – è l’unico modo per lasciare che la vita, seguendo le sue vie a volte incomprensibili e fantasiose, ci conduca verso la nostra personale “vittoria”, magari non apparente, non immediata, ma certamente assoluta. Perciò, ecco, riprendendo le parole della mia prefazione “Questo romanzo è per ricordare a ciascuno di noi che non ci resta che arrenderci con coraggio ad essere quello che siamo finché siamo qui.”
5. C’è qualcosa che avresti voluto aggiungere al romanzo, quando l’hai letto dopo la pubblicazione?
Vedere le nostre parole uscire da noi stessi e fissarsi sulla carta stampata fa un effetto difficile da descrivere, quindi mentirei se dicessi che non ho riletto neanche una pagina dopo la pubblicazione. Piuttosto posso dire che ho smesso di leggere perché non facevo che trovare difetti e possibilità di miglioramento e non ne sarei più uscita…
6. Perché credi si debba leggere il tuo libro?
Come autrice, nello scrivere questo romanzo ho cercato di esprimere un significato autentico che mi appartiene. Per questo spero che ciascuno possa ritrovare anche una piccola parte di se stesso nelle mie parole e nella mia storia.
7. Hai nuovi progetti? Stai scrivendo un nuovo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
Per il momento ho tante idee in testa, ma nessun progetto definito. Non escludo però in futuro di scrivere ancora visto che non ho fatto altro per tutta la mia vita fino ad oggi.
8. Quale libro non consiglieresti mai a nessuno?
A seconda delle circostanze e del momento, con il giusto spirito critico, penso sia utile leggere qualsiasi cosa. Conosci il brano di Guccini “Una canzone”, in cui si dice che esistono canzoni per la rabbia, per la solitudine, per la condivisione…? Beh, allo stesso modo esiste una lettura per ogni momento. D’altronde, i libri spingono alla consapevolezza di sé e nessun libro ha mai reso qualcuno qualcosa che non fosse già nel suo intimo inconsapevolmente.