Intervista a Tommaso Pincio
Nel suo ultimo romanzo Cinacittà. Memorie del mio delitto efferato uno degli argomenti di maggior rilievo è la situazione complicata che si trova all’esterno della cella in cui il protagonista è relegato. Si parla di Tangentopoli, dell’inflazione, dell’inquinamento ambientale. Quale pensa sia il maggiore problema della società italiana?
Il fatto di essere una società culturalmente ma soprattutto anagraficamente vecchia che ha smesso di
progettare il futuro. Il problema non è tanto il numero esiguo dei nuovi nati ma l’atteggiamento generale. Il nostro premier attuale non è soltanto il più anziano fra i capi di stato del cosiddetto G8, si è pure presentato per cinque volte consecutive alle elezioni. La società italiana nel suo complesso funziona alla stessa maniera e non si può certo sostenere che un tale sistema favorisca il rinnovamento. Per lungo tempo, l’essere rimasti tenacemente ancorati alla tradizione è stato uno dei nostri punti di forza. La globalizzazione impone però di cambiare rotta: nel mondo attuale non è più possibile coltivare il sogno di un bel paese ripiegato su se stesso.
La colonizzazione dei cinesi è un tema scottante che il protagonista del libro non esclude dai suoi pensieri nel momento in cui cerca le cause della caduta di una città come Roma, che sembrava imbattibile. L’invasione della nostra terra da parte dei cinesi cosa ha cambiato nella quotidianità?
Nonostante la presenza cinese a Roma sia quintuplicata nel giro di pochi anni, l’invasione è stata per così dire dolce, perlomeno in apparenza. I cinesi sono di gran lunga più accettati degli immigrati di altre etnie e questo perché agli occhi dell’opinione pubblica non rappresentano una minaccia alla sicurezza. Al tempo stesso sono la comunità più mitizzata. Sui cinesi si raccontano una quantità incredibile di leggende urbane, alcune delle quali davvero assurde e offensive come quella che riciclano i documenti dei loro morti. Il protagonista del mio romanzo li considera i nuovi barbari e quindi i principali responsabili delle sue personali disgrazie. “Cinacittà” racconta la storia di un uomo che pur non di ammettere i suoi limiti traccia un’improbabile parallelo tra il suo fallimento e quello della nuova caduta di Roma, il che lo rende un perfetto esemplare di italiano. In tutto ciò c’è ovviamente una forte valenza simbolica, giacché da secoli la cultura occidentale ha visto nel crollo della civiltà romana una metafora del suo tramonto. Non meno significativo è il fatto che molti storici ritengano che gli italiani in quanto popolo nascano proprio con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augusto da parte Odoacre, vale a dire dal miscuglio di romani e barbari.
In questi ultimi anni c’è la tendenza da parte degli scrittori italiani a non tralasciare argomenti socialmente importanti, caso più eclatante Gomorra di Saviano. Come mai c’è questa necessità di parlare di argomenti così forti?
Credo per due ragione fondamentali. La prima è ovvia: stiamo attraversando una fase delicata, di profonda trasformazione, che necessita di essere investigata e raccontata. La seconda è che politica e giornalismo stanno diventando il teatrino dell’omologazione. Le voci di dissenso e critica sociale sono una specie in via di estinzione. È inevitabile che gli scrittori avvertano il bisogno di riempire questo vuoto.
Il romanzo di un suo collega che ha amato di più?
Sono davvero molti i libri che ho amato, citarne uno in particolare vorrebbe dire fare un torto a tanti altri. Le dirò dunque che ne ho appena finito straordinario, “Italia De Profundis” di Giuseppe Genna.
Quello che Tommaso Pincio non ha mai finito di leggere?
Sono un lettore disordinato, nel senso che leggo più libri contemporaneamente. Per cui è fatale che qualcuno si perda per strada.