Di cosa parla La rimozione di Andrea Kerbaker
Nel libro La rimozione di Andrea Kerbaker si parla di Giuseppe Tavecchio: vittima dimenticata degli anni di piombo…
Un lacrimogeno corre a 100 chilometri orari. Lanciato orizzontalmente, senza l’angolazione di 45° prescritta dai protocolli di Polizia, ha impiegato tre secondi in piazza della Scala a coprire i 100 metri tra la camionetta e l’angolo di via Verdi. Intanto, il semaforo è diventato verde.
L’uomo si è incamminato sulle strisce pedonali. Viene raggiunto alla nuca. Alle cinque della sera. Giuseppe Tavecchio è morto un pomeriggio “caldo” di un freddo sabato del marzo 1972. Chi ricorda quella vittima degli anni di piombo? Solo il giornalista e scrittore Andrea Kerbaker e solo oggi in questo libro intitolato La rimozione.
Lo ha fatto per ragioni personali, perché era un ragazzino in centro, a Milano, proprio in quei tempi. Chissà quante volte è passato da lì, dov’è successa “quella cosa” ed ha voluto scoprine i contorni e ricostruirli, in un saggio-inchiesta-romanzo, La rimozione, Marsilio Editori, 126 pagine, 15 euro.
Giuseppe Tavecchio è un caduto dimenticato degli anni della contestazione. Un pensionato, vedovo, poco meno che sessantenne, colpito dal candelotto lanciato da un celerino, su ordine di un capitano e verso il nulla, perché erano altrove gli estremisti di sinistra che minacciavano la sede del Corriere della Sera, dopo una manifestazione non autorizzata.
A chi serviva piangere Tavecchio? È rimasto in una terra di nessuno ideologica: non apparteneva a una o l’altra delle fazioni contrapposte e neanche allo Stato. Non c’era chi avesse un motivo per commemorarlo. Rossi e neri non lo riconoscevano proprio. Le istituzioni avevano interesse a sotterrare l’episodio e le responsabilità. La stampa lo ha ignorato per il semplice fatto che nessuno lo ricordava.
Tavecchio, un milite ignoto della cronaca, nella stagione degli opposti-estremismi. Non gli hanno concesso nemmeno un marmo dei tanti che nell’immediatezza dei fatti o anche più tardi hanno segnato il luogo dove sono morti ragazzi di sinistra, militanti di destra, agenti di Polizia o Carabinieri, falciati nel corso di due decenni di protesta operaia e sociale, giovanile e studentesca.
Per Tavecchio, non una scritta sulla facciata di un palazzo, né allora né dopo. Non è mai rientrato nel lungo elenco di caduti noti, tra i Claudio Varalli e i Sergio Ramelli, i Fausto e Iaio (studenti), gli Emilio Alessandrini (magistrato), i Walter Tobagi (giornalista), i Guido Galli (docente).
In gergo psicanalitico si chiama rimozione, scrive Kerbaker. Per Freud è un’operazione psichica difensiva: l’individuo respinge nell’inconscio pensieri, immagini, ricordi e fantasie, vissuti come pericolosi per il suo equilibrio. Ecco, è andata proprio così, sottolinea Andrea Kerbaker.
Una rimozione a 360°: non vie, non strade, non scuole o parchi, non articoli, non un libro, non una lapide, che quelle non si negano a nessuno. Perfino Google ha pochissime risposte. Perché per meritare una cittadinanza nel mondo della memoria collettiva, bisogna essere morto per un ideale – la difesa dello Stato o la rivoluzione contro le istituzioni – ma l’11 di marzo del 1972, alle 17,10 in piazza della Scala, Giuseppe Tavecchio ha solo avuto la malaugurata idea di attraversare una strada al momento sbagliato.
Kerbaker nel libro La rimozione si impegna a ricostruire la vita di un uomo qualsiasi. Ha raggiunto uno dei suoi figli (l’altro non ha accettato di collaborare), che vive in Friuli, da qui tanti rimandi a Pasolini, che quegli anni li ha interpretati con una lucidità che all’epoca si faceva fatica a riconoscergli.
Una ricerca lunga, impegnativa, ma alla fine Kerbaker è riuscito a realizzare il profilo inedito di Giuseppe Tavecchio, un tributo dovuto a una vittima dell’indifferenza.
Accanto alla biografia dell’operaio pensionato, l’autore scandisce, con rara efficacia, vicende politiche, sociali e di costume, a partire dagli anni Sessanta, sotto l’ombra sempre incombente delle stragi nere, da Piazza Fontana in poi.
Qua e là ricorda alcuni protagonisti dei decenni più caldi, Sessanta-Settanta. Ci sono le vittime di scontri di piazza, di pestaggi, agguati, omicidi. Compaiono Aldo Aniasi, sindaco socialista di Milano e il commissario Calabresi, l’anarchico Pinelli e Valpreda, il regista Marco Bellocchio e il sovrintendente della Scala Paolo Grassi, sempre in prima linea a battersi per il primato della cultura, sopravvissuto a 25 anni di Piccolo Teatro e di bizze del registra Strehler, non agli agguerriti sindacati scaligeri. Gli scontri con dipendenti costantemente agitati, lo indussero alle dimissioni, a fine anni Settanta.
Alle 17,10 Giuseppe Tavecchio cadde sul pavè di piazza della Scala. Spirò tre giorni dopo, senza aver ripreso conoscenza, condannato a lasciare questo mondo senza che il mondo volesse sapere perché.
Recensione scritta da Massimo Valenti