Di cosa parla “Le cose che non ho detto” di Azar Nafisi
Azar Nafisi vuole fare ancora molto. Nel libro “Le cose che non ho detto” stila nel suo diario un elenco di cose segrete da fare: innamorarsi a Teheran, leggere Lolita a Teheran, guardare i Fratelli Marx a Teheran. Tutto quello che sembra non si possa fare. Non ha voglia di tacere, di lasciare da parte la storia che sta vivendo ed è per questo che si racconta.
Lo fa partendo dal ritratto di suo padre, che è stato sindaco nel periodo dello scià a Teheran e dalla descrizione della madre che è stata tra le prime donne ad entrare in Parlamento in Iran.
Non tralascia nulla, ha bisogno di svelare ogni segreto e non ha vergogna di confessare neppure i tradimenti del padre, racconta di come è riuscita a sopravvivere al dolore inventandosi una realtà fantastica per superere il mondo che era costretta a vivere.
Ma soprattutto quello che sembra voglia uscire dalla penna della scrittrice è un significato molto importante. Lei ci vuole mostrare come le dittature alla fine, siano una riproduzione in grande di un sistema più piccolo: quello familiare.
“Le cose che non ho detto” è un libro autentico, una storia che racchiude le verità del luogo, le difficoltà e le sofferenze di persone che continuano a subire soprusi e violenze. Azar Nafisi ci fa avvicinare a un luogo che purtroppo esiste.
Quarta di copertina libro
«Figlia di un raffinato intellettuale, sindaco di Teheran ai tempi dello scià, poi caduto in disgrazia e imprigionato per quattro anni senza processo, e di una bellissima donna dal difficile carattere che fu parlamentare per qualche tempo, la scrittrice ripercorre quarant’anni di storia privata e pubblica, sempre strettamente connesse, al punto che l’inasprirsi del dissidio familiare sembra quasi avanzare di pari passo con l’incrudelirsi del regime islamico iraniano…
Come per tutti gli esuli, anche volontari, incancellabili sono per lei gli anni di Teheran, gli anni buoni prima dell’arresto del padre e del precipitare degli avvenimenti … È la vivace città dei bazar che la scrittrice rimpiange, la città dei negozi e dei negozietti, dei bar e delle pasticcerie, dei sarti e delle gelaterie, dei giardini e delle strade piene di gente senza paura, senza velo e senza guardiani della rivoluzione, delle feste nelle case degli amici, delle quotidiane riunioni per il caffè nel salotto dei genitori, delle conversazioni, delle discussioni, della libertà o dell’illusione di libertà che si respirava un tempo, per troppo breve tempo».
Isabella Bossi Fedrigotti