Di cosa parla Trittico dell’infamia di Pablo Montoya
Quanti crimini nella storia, in nome di una religione. Il colombiano Pablo Montoya, scrittore e docente di letteratura nell’Università di Antioquia, li smaschera in un ammirevole romanzo, Trittico dell’infamia, in libreria da marzo, pubblicato dalle Edizioni E/O a marzo 2017, 272 pagine 18 euro.
In Trittico dell’infamia sono le storie convergenti di tre uomini, tre artisti, tra narrativa e riflessione sulla violenza dell’imposizione di un credo e di una civiltà.
1564, Europa atlantica. Jacques Le Moyne è ugonotto, come venivano chiamati i calvinisti francesi. Non alto ma robusto, è archibugiere nella guarnigione di Dieppe, sulla costa della Normandia. Non è svelto con l’alabarda, per questo si è votato all’archibugio, sebbene non abbia predisposizione nemmeno per quest’arma.
Con le sue mani, eleganti e solide, la parte migliore di sé, ama dipingere cavalli, castelli, i suoi stessi compagni o anche disegni osceni, che vende ai commilitoni per pochi soldi.
Si arruola con la spedizione al comando di René Laudonnière, la prima protestante diretta nel Nuovo Mondo, in via di colonizzazione dopo la scoperta colombiana dell’approdo nelle presunte Indie, raggiunte navigando verso Occidente.
La missione ha il compito di esplorare, lui quello di tracciare schizzi sulla natura e sul clima. In pratica, è l’antenato di un fotoreporter scientifico.
Toccano terra nell’attuale Florida e costruiscono Fort Caroline. I rapporti con i nativi non sono ostili. Laudonnière del resto segue una politica di pacificazione tra le tribù, sempre in lotta tra loro e gli indios tollerano Jacques più dei soldati, che si concedono troppe licenze con le donne. Ha quindi modo di frequentarli ed è meravigliato dalla ricchezza di quel mondo e dalla naturalezza primitiva di chi lo abita. Scopre che gli indigeni usano il proprio corpo come una tela, ornandosi di linee, cerchi, rombi.
L’idillio è infranto dalla carestia, dalla fame, dalle ribellioni dei soldati e alla fine dall’incursione degli spagnoli. Laudonnière riesce ad allontanarsi con pochi superstiti. Sul forte sventola la bandiera nemica.
1572, François Dubois, nativo di Amiens, vive a Parigi. È un bravo artista, ne frequenta altri e apprezza il genio dei grandi dell’arte del passato. La moglie gli ha parlato di un innamorato che la corteggiava quando viveva a Dieppe, un altro pittore, oltre che cosmografo, salpato con una spedizione verso le Tierras Floridas. La notorietà dei reduci di quell’impresa, tanto celebrati nella capitale, li porta a incontrarsi. Le Moyne è cambiato, è tatuato ed ha un braccio offeso da un’archibugiata, ma resta ancora affascinato dalla natura paradisiaca di quei luoghi.
Nella notte di San Bartolomeo, Dubois perde la moglie incinta di un figlio, uccisa dai papisti nella strage orribile dei protestanti. Lui si salva, per avere indosso un copricapo della foggia preferita dai cattolici. Costretto a fuggire, ripara a Ginevra. Per il resto della vita, la sua missione diventa dipingere lo sterminio dei diecimila ugonotti, uomini, donne, bambini, nell’agosto del 1572.
Centosessanta personaggi, tra vittime e carnefici, animano il suo quadro sul massacro, un manifesto visivo della crudeltà più sanguinaria. È custodito nel Museo Cantonale delle Belle Arti di Losanna e riprodotto sulla copertina scelta dalle Edizioni E/O.
Il terzo artista che collega ulteriormente i primi due è Théodore de Bry, nato a Liegi, ma trasferito da giovane a Strasburgo. A causa dell’adesione al protestantesimo fugge ad Anversa, a Londra e più tardi a Francoforte, dove apre una bottega e riesce ad affermarsi con una notorietà che conquista il continente.
Maestro orafo, litografo e stampatore ispirato da Durer, attraverso un altro incisore, Etienne Delaune, si appassiona nel 1578 alle vicende artistiche di Jacques Le Moyne e alle sue tavole che ritraggono i selvaggi della Nuova Francia.
Lo chiamavamo il pittore degli indios, con una punta di disprezzo unita a una certa curiosità. Sfuggito al massacro di san Bartolomeo, vive a Ginevra ed è lì che l’artista-editore tanto abbagliato dal Nuovo Mondo può incontrarlo.
La lontana America degli indigeni per Theodore è un paradiso travolto dal male. Le sue incisioni truculente di indios di ogni sesso torturati, appesi e bruciati dagli spagnoli commentano la “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”, il trattato del domenicano e vescovo Bartolomeo de Las Casas, che denuncia le barbarie commesse nell’occupazione ispanica delle Americhe.
Questa strage, che vuole punire sciaguratamente chi vive un mondo primigenio e nativo e viene commessa in nome della civiltà e di una malintesa pudicizia, si collega a quella di chi confessa un credo religioso diverso.
Eccidi, cospirazioni, trattati di pace non rispettati, una nobiltà inadatta a governare un popolo avvelenato dalle superstizioni: questo lo scenario della persecuzione dei cristiani europei ai danni dei protestanti europei, mentre oltreoceano si commettevano atti crudeli degli europei ai danni degli indigeni centroamericani. E su tutti, i mille modi atroci inventati dall’uomo di infliggere dolore e morte ad altri uomini.
Recensione scritta da M. Fabi